Mio padre era un sedentario fenomenale che, uscito da una complicata operazione di esportazione di un cancro alla parotide, reagì alla malattia cominciando a camminare e poi a correre. Prima dieci, poi ventidue, quindi lo spazio della maratona, 42,195 chilometri, di cui diventò uno specialista e il terzo italiano di tutti i tempi per numero di gare effettuate.
Dopo quelle prime prove, continuò a correre ostinatamente per le strade di mezzo mondo per oltre cinquant’anni, allenandosi tutti i santi giorni e parlando solo di quello, come se tutto il resto non esistesse. Come se non esistesse la politica, che lo aveva già deluso negli anni ’60, non esistesse il lavoro, che era il dazio che pagava per stare al mondo, non esistesse la gente della piccola città che lo derideva per questa sua attività ostinata, e non esistesse neanche la sua famiglia, che viveva come attore non protagonista, più o meno come tutti i padri della mia generazione.
Nella vita succede certe volte che si comincia a fare una cosa, tra tante quella che più di altre pensiamo possa contribuire a costruire la nostra storia di persone, poi quella prende il sopravvento e non ti lascia più, diventa il tuo destino, la tua unica, grande o piccola epica. Questo vale per chi corre, per chi scrive come me, per chi viaggia in modo avventuroso o scala una montagna, vale per il velista solitario che naviga gli oceani, ma anche in altri percorsi, mistici, industriali, rivoluzionari è così.
Scrivere un libro è un po’ come correre una maratona, la motivazione in sostanza è della stessa natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno come scrive Murakami Haruki ne L’arte di correre.
Un giorno si comincia, accettando una prima sfida, e dopo ne seguono moltissime altre, fino all’ultima che riesci ad accettare prima della fine. Quel giorno per mio padre Mario, scomparso un anno fa a 92 anni, fu il 10 agosto del 1972, quando ne aveva solo 48, e in seguito a un’operazione alla parotide, un indefinito tumore per l’epoca, dopo mesi di convalescenza partecipò sconsideratamente a una gara podistica di 30 km, che fu in realtà una completa débâcle. A metà gara, infatti, sotto il sole cocente, poco allenato e temprato fisicamente, affrontando una strada larga in salita dentro la fiumana dei partecipanti, prese una “cotta”, come si direbbe in gergo ciclistico, e dopo una via crucis di fermate e ripartenze, le gambe legnose, il fiatone, arrivò al traguardo mezzo morto e disidratato.
Erano gli anni in cui gli italiani scoprivano quelle che chiamavano “marcialonghe”, gruppi di atleti non competitivi poco esperti, in un paese ancora ottimista e comunitario, raggiungevano in gruppo località vicine e lontane per correre insieme, condividere un percorso, un paesaggio, e i ristori volanti lungo il cammino.
Mio padre fu uno dei pionieri della corsa amatoriale. Lavorava come sportellista alle Poste, e il sabato pomeriggio saliva su un treno, arrivava nel nord dell’Italia, oppure valicava le Alpi per raggiungere piccole valli svizzere, austriache, cittadine belghe o olandesi di cui noi a casa sapevamo i nomi e quel poco che dai suoi racconti riusciva a farci immaginare al ritorno, il resto costituiva l’ignoto.
Nella cartina geografica dell’Europa appesa nel tinello della nostra vecchia casa, guardando i moltissimi puntini rossi segnati con la penna a spirito, ci si può fare l’idea di quanti viaggi abbia potuto compiere, soprattutto da metà degli anni Settanta al Duemila, quando era ancora un uomo di mezza età con un fisico d’acciaio, determinato come Zatopek la “locomotiva” e testardo come Dorando Pietri, al quale per l’ammirazione aveva intitolato la sua prima squadra sportiva.
Dalle corse di paese, dove ormai primeggiava nella sua categoria anagrafica, presto arrivarono le gare all’estero, maratone soprattutto, ma già a metà degli anni ’70 iniziò a fare le 100 km, a cominciare da quella del “Passatore”, Firenze-Faenza del 1975, una classica, dove arrivò stremato dopo 17 ore, correndo nel cuore della notte e giungendo al traguardo alle prime luci dell’alba, che ripeté per altre quattro volte.
Già l’anno dopo a Biel Bienne, alla Svizzera City Marathon, il tempo si era abbassato a 11.38, e nel 1977, sempre nella stessa manifestazione, addirittura a 10.51. Le “cento” andava a correrle anche in Spagna, la Santander Marathon, a Belves in Francia e nella fredda Finlandia, all’Hartola City, arrivando in quei posti dopo lunghi tragitti e tante ore di treno seduto sui sedili di seconda, o dormendo nella carrozza cuccette.
In contemporanea, partecipava alle maratone più prestigiose nelle strade di New York, Londra, Mosca, Budapest, Amsterdam, Zurigo, Atene, Bruxelles, Stoccolma, Helsinki, Parigi, Barcellona, Jerba. Non pago, per mettersi ancora di più alla prova, il temerario iniziò più tardi le Supermaratone a tappe, il primo fu il “Giro di Danimarca”, 308 chilometri, poi Strasburgo-Parigi, 500 km, Firenze-Mosca, 4200 km, tra le altre, compresa quella della Foresta nera nel 2000, corsa a 58 anni suonati, 240 chilometri di percorsi di montagne tra i boschi. E ancora, scelse per l'avventura delle massacranti 12 e 24 ore non stop. A quella di Milano, in un giorno intero, nel giugno del 1979 riuscì a fare 174 chilometri e delle decine di partenti alla fine arrivarono solo in due.
La sua epica toccò il culmine quando dalle ore 12,00 di venerdì 17 alle 12,00 di domenica 19 maggio 1985 marciò per 48 ore sulla sesta corsia del Campo scuola di Atletica leggera di Ascoli Piceno, sopra il Colle San Marco.
Di ora in ora lungo le gradinate e ai margini delle piste cominciarono ad arrivare sportivi e curiosi, il tempo passava inesorabile, cresceva l’incitamento, e alla fine oltre 5000 persone seguivano mio padre che continuava ad avanzare impavido, nonostante fosse logorato dalla fatica, trascinando le gambe testardo, mentre a rotazione i suoi amici atleti, tra i quali l’allenatore Enzo Zacchetti, lo sostenevano marciandogli a fianco.
Furono momenti di grande emozione, gli ultimi giri sembravano quelli di una impresa olimpionica, la sua maschera facciale era fiera e provata, ma lui ancora instancabile non abbassava la guardia, e alla fine i chilometri percorsi furono 301, uno in più di quanti si era prefissato di farne. Riuscì nel suo intento solo perché nelle ultime ore aumentò il ritmo dell’andatura, concentrato e solo nell’intento di farcela, sbalordendo tutti.
Le sue gesta fecero sì che a un certo punto nelle cerchia degli amici qualcuno mi affibbiò un nomignolo al quale sono abbastanza affezionato, “il figlio di Forrest Gump”. Infatti la sua vita sportiva, come le gesta del bizzarro e tenero personaggio del film, che corre in lungo e in largo per gli Stati Uniti per 3 anni, due mesi, 14 giorni e 12 ore, sta tutta dentro questa frase di Tolstoj che trovo perfetta per descrivere la voglia di correre e camminare come puro esercizio di libertà:
“Avvertivo dentro di me una sovrabbondanza di energia che non trovava sfogo in una vita tranquilla.”
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