Quando gli accademici diventano branco
Una professoressa, due ricercatori, un bancario e persino una postulante dei santi cedono al lato scuro del branco per denigrare nei social uno sconosciuto e consolidare così l’intoccabilità del proprio dominio. In nome dell’hashtag.

“Scimmione”. Chissà perché il termine mi suona familiare e mi fa quasi sorridere. Lo leggo rivolto a me, in un post su Facebook nel quale mi sono accidentalmente imbattuto. A scriverlo è una signora, professoressa universitaria di seconda fascia dell’università di Trento, che, a proposito del mio libro Danteide, si è espressa in questi termini:
“Se non è un plagiario è uno scimmione in perfetta regola. Scrivere un libro senza sapere nulla e copiando anche il titolo dal sito online dal 2001 di una dantista.... (sarà che è donna dunque non conta?)”.

L’appartenenza della signora alla categoria degli accademici mi porta a supporre che la scrivente sia dotata di quell’atteggiamento conoscitivo della realtà attraverso le cui regole implicite (le quali presumono, prima di arrivare all’enunciazione di una tesi, una raccolta di dati, un vaglio delle ipotesi e un’analisi razionale dei fatti) si è obbligati a procedere pur di raggiungere un risultato affidabile e distinguersi così da chi parla a vanvera.
Esaminando quel post, rimaneggiato più volte, non posso, invece, fare a meno di notare come una professoressa universitaria si riferisca a un individuo del quale niente sa per etichettarlo, senza analisi o prove, “plagiaro” e “scimmione”, additandolo come uno che scrive “senza sapere nulla” che per di più ha copiato il titolo del suo libro dal nome di un sito internet.
Pur nella sua piccolezza, l’episodio contiene dinamiche interessanti capaci di scoperchiare singolari rivelazioni. Oggetto delle seguenti righe sarà dunque quello di individuarle: a partire da tre premesse “tecniche” (sulla proprietà di un dominio internet, l’uso del termine “danteide” e l’utilizzo del suffisso “eide”) si arriverà a mettere in luce come anche in un contesto umanistico, tra persone insospettabili (come si vedrà nelle reazioni al post), possano avvenire dinamiche di denigrazione (tipiche di mobbing, bullismo, maschilismo, nonnismo e di tutti gli altri casi di razzismo biologico). All’interno di queste, si metterà in luce come il senso del possesso, unito a quello di appartenenza, sia capace di portare i singoli a:
1) perdere le proprie capacità critiche;
2) sentirsi parte di un branco;
3) abbandonarsi all’impulsività delle azioni.
Il tutto, in questo caso, in nome dell’intoccabilità del proprio territorio. E il “dominio” in questo diventa simbolico. Pertanto da questo inizio.
LA PRESUNTA PROPRIETA’ DEL DOMINIO
L’autrice del post si sente la detentrice unica del nome “danteide”, in base al fatto che sia l’intestataria dell’omonimo nome del dominio di secondo livello in due diverse estensioni (il .net dalle ore 13.37 del 15 gennaio 2002 - e non 2001 come scrive - e il .it dalle ore 19.06 del 19 maggio 2015, come recitano i dati del protocollo di rete).
In questi decenni di rivoluzioni digitali anche io, come molti altri, ho avuto modo di occuparmi di diritto d’autore, naming, domini e marchi e mi si perdoni, dunque, se parto da una premessa tecnica.
Visto che ne gestisce almeno due, l’autrice del post saprà che un nome a dominio non viene ceduto in proprietà al registrante perché a questi viene conferito solo un diritto all’uso. I domini - parla uno che ne ha avuti cinquecento - non sono mai nostri. Si tratta solo una titolarità provvisoria. Ci vengono dati in concessione, come i banchi di un mercato o gli stabilimenti di una spiaggia. E come accade ai venditori al minuto di verdura e ai gestori balneari anche a noi a volte ci viene da pensare che il rinnovo continuo di anno in anno renda questi definitivamente “nostri”. Purtroppo, come è evidente, non è così (naturalmente, così come le botteghe o i lidi privati, esistono i marchi registrati che vanno in una direzione più solida anche se più sfaccettata, fermo però qui la mia premessa perché il tema si complicherebbe allontanandosi dal nocciolo della faccenda in questione).
L’ORIGINE DI DANTEIDE
Appurato che il dominio non è una nostra proprietà vorrei passare al termine che connota sia il nome del dominio che il titolo del mio libro: quel “Danteide” che, vedendolo in libreria, ha fatto sobbalzare la signora portandola a:
1) fotografare il volume;
2) creare un post;
3) dare dello “scimmione” al suo autore;
4) aspettare il consenso dei suoi amici.
Quel nome, come saprà la noleggiatrice dell’omonimo dominio, ha origini antiche. Mi limito a citare alcune delle tappe che la signora conoscerà a menadito:
1) lo possiamo trovare già ai tempi della nota polemica antidantesca di Saverio Bettinelli all’interno della prefazione de “La difesa di Dante” di Gasparo Gozzi nel 1758 (“Dico ciò per conghiettura, e quasi giurerei che più volte, essendo Dante il personaggio principale del suo poema, gli cadesse in animo d'intitolarlo Danteide”, alla riga 20 di pagina 16, ma il termine ritorna anche nella seconda riga della pagina seguente, nell’edizione del 1828 editata da Bettoni);
2) lo cita, nel 1892, Isidoro Del Lungo nel suo “Dante nel suo poema” (“sotto tale rispetto, foggiava, secondo lo stampo tradizionale, come appropriatissimo, il titolo di Danteide”);
3) lo vediamo ripreso nel 1920 da Benedetto Croce nel suo “La poesia di Dante” (“sicché si direbbe inclini a non dare tutti i torti a quello scrittore settecentesco, che voleva togliere alla Divina Commedia il suo titolo vulgato e sostituirvi l’altro di Danteide”, secondo capitolo, “La struttura della Commedia e la poesia”, alla riga 26 di pagina 56 della seconda edizione del 1921 uscita con Laterza);
4) lo utilizza Karl Vossler nel 1927 quando nella seconda edizione della sua “Die Gottliche Komödie” intende la Commedia come una danteide;
5) lo riprende Michele Barbi nel 1931 all’interno della voce su Dante Alighieri dell’Enciclopedia Dantesca a proposito della parte che il poeta ha nel suo poema (“la sua personalità tanto espande nel poema, che ben si disse poter questo esser chiamato Danteide”);
6) formulazione poi fissata anche nell’edizione del 1970 della Treccani dantesca sia da Eugenio Chiarini e Pier Vincenzo Mengaldo, nella loro voce su “Venezia”, sia da Fiorenzo Forti, nella sua voce su “Cacciaguida”. Entrambe le voci citavano naturalmente il termine Danteide.
Senza contare tutte le altre voci contemporanee:
7) cito, a titolo di esempio, la più “profana”, tratta da una guida del portale Supereva (la signora può trovarla all’indirizzo http://guide.supereva.it/libri_autori/interventi/2000/07/8313.shtml): come si può riscontrare dal permalink, impostato per “data e voce”, risale all’anno giubilare del 2000, antecedente quindi al suo dominio, segno che anche la signora Lidia, “moglie, mamma ed insegnante”, generosa autrice, nel portale, della voce “La Danteide” (termine che ricavò da Giuseppe Petronio “L’attività letteraria in Italia”, 1979, testo, sul quale ho studiato anche io ai tempi del liceo classico, che si potrebbe aggiungere quindi alla lista) avrebbe avuto da ridire nei confronti della professoressa se solo avesse usato la sua logica due anni dopo.
IL SUFFISSO “EIDE”
Ora, appurato che quel termine ha una storia precedente a quella del sito e del libro, se anche questa non fosse esistita basterebbe lo stesso suffisso “eide”, il quale, da tempo ancora più lungo, si lega a nomi propri per indicare opere contenitrici di gesta o vicissitudini del personaggio prestante il nome. Quelle della signora in questione, ad esempio, potrebbero essere raccolte in una “Signoreide” (scrivo così per non nominarla ma anche con il suo cognome l’estensione .it è libera) e questa logica nominativa sarebbe figlia dell’Eneide (così come, nell’uso comune, tutti gli scandali - con i loro suffissi “gate” e “(o)poli” - sono rispettivamente figli del Watergate e della lingua greca; soprattutto da Tangentopoli in poi).
Volendo scrivere un libro su cosa Dante vide e su come Dante visse, su un uomo vivo che, benché non esistano fonti, si è imbattuto per motivi anagrafici in una miriade di eventi cruciali, il titolo Danteide è stato il primo e l’unico che mi sia venuto in mente non solo non sapendo nulla dell’esistenza del sito della signora (che ad ogni modo, per quel che vedo, si limita a raccogliere titoli di libri o seminari e non vicissitudini di Dante facendo apparire quel titolo, dunque, almeno ai miei occhi profani, fuori fuoco; metto comunque in conto che certamente mi mancano elementi) ma anche non tenendo in considerazione quanto fosse stato detto o scritto in precedenza. Semplicemente, alla luce della conoscenza del suffisso in questione e alla mia tendenza a creare in qualche modo morfemi lessicali composti, mi è venuto naturale, come naturale sarà venuto a centinaia di altre persone usare quel nome (vedo che, ad esempio, il professor Alessio Francesco Palmieri Marinoni sta organizzando un ciclo di lezioni sotto quel titolo e naturalmente non ci trovo nulla di male), perché rappresentava in maniera esatta il contenuto che mi proponevo di scrivere. E il titolo “Danteide” è stato da me presentato all’editore (e non da questi, Bompiani, alla signora “rubato” come lei stessa ha sostenuto in un suo commento) unitamente al piano dell’opera ignorando totalmente in quel momento, spero l’interessata se ne riesca a fare una ragione, la vita e l’opera della signora in questione.
I PRESUNTI STUDIOSI
Quella proposta fatta ormai qualche anno fa è diventata poi un libro sul quale ho lavorato molto e quel libro, una volta uscito, la signora se l’è trovato sotto gli occhi. Anche io mi sono trovato a leggere le sue righe e naturalmente mi permetto di scriverne perché il suo post è pubblico così come pubblici sono i commenti degli autori suoi amici che si sono esposti unendosi a lei anche nelle denigrazioni. Come il signore astrofilo e gestore di titoli bancari ma evidentemente “dantista” il quale però, benché abbia compiuto “studi commerciali”, si professa anche “filosofo” nella biografia che accompagna l’auto-pubblicazione dei suoi testi su “Il mio libro” (piattaforma che viene sul sito definita “un imbattibile trampolino di lancio” per gli “autori emergenti”) e che, ricalcando le rigorose logiche della fenomenologia dell’essere, mi definisce:
“Il solito scribacchino che sui giornali scrive di sport e si è accorto che c’è un Centenario...”
(gli accenti sono i miei e sostituiscono gli apostrofi nel testo originale)
non sapendo che sui giornali non scrivo di sport (eventualità capitata solo accidentalmente) ma, purtroppo per i lettori, di altro.

Premettendo che la voce “scribacchino” è stata censita tra le parole dell’odio circolanti in Italia in quanto termine dispregiativo utilizzato con il fine di provocare volontariamente dolore (scriveva Gianni Rodari che abbiamo “parole per ferire”), l’approssimazione di cui si fa portavoce anche questo signore (qui probabilmente dettata dal fatto che ho scritto per Mondadori un libro intitolato “La partita”, tra l’altro successivo al contratto Bompiani, premiato da un premio Bancarella proprio dalle parti in cui mi sembra gravitare il signore) è il motivo per cui non seguo come dovrei i social: impazzirei.
Il fatto che i social mettano in evidenza come anche individui gravitanti attorno a contesti accademici (e dunque, si pensa, persone che fanno della riflessione, e dunque dell’attesa, oltre che dello studio, il loro mestiere) parlino a vanvera è una ennesima sconfortante (se non avvilente) rivelazione. Nei commenti si aggiunge, infatti, anche un ricercatore preso l’Università degli Studi di Siena (il cui slogan ben in vista nella sua pagina Facebook è “lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale ...”), per tirare in ballo, con una superficialità e un qualunquismo sconcertante, una questione giuridica - qui totalmente fuori luogo (anzi, quasi controproducente per la signora che non ha creato, coniato o inventato il termine, essendosi limitata semplicemente a riprenderlo) - sostenendo che “non possiamo produrre vaccini, per tutelare i diritti d'autore delle case farmaceutiche, mentre nel settore della ricerca umanistica il problema non si pone”.
Non so in cosa sia ricercatore il signore ma qui forse sarebbe stato più utile per lui ricercare a cosa si possa applicare il diritto d’autore (visto che probabilmente nella “logica” contenuta nel suo esame “intellettuale” “e molto faticoso” se io aprissi un sito chiamato, per dire, dirittodautore.it nessuno potrebbe scrivere un manuale con un titolo simile perché automaticamente – secondo la logica della signora da tutti i suoi colleghi assecondata - ne diventerei l’inventore e il proprietario assoluto al punto che anche lui non potrebbe nemmeno menzionarlo).
IL BRANCO
Sappiamo benissimo quali sono le coordinate della nostra comunicazione: il famoso “bombardamento” da una parte e il nostro piccolo spazio dall’altra. La mole sommata alla velocità crea fretta e trovo quasi naturale che, senza strumenti solidi e una impostazione rigorosa, sia sempre più difficile approfondire in poco tempo le informazioni con così tanti stimoli. Ciò che trovo innaturale è il desiderio da parte degli utenti di dire sempre la propria, a qualunque costo, in qualunque momento, su qualsiasi argomento.
Così anche in un contesto di “studiosi”, che per professione (e quindi per deformazione) dovrebbe mantenere un approccio rigoroso, prudente, verificatorio e riflessivo, le persone coinvolte, anziché tenersi fuori da atteggiamenti approssimativi o grossolani (e, ancor più, invece di guardarsi bene dal denigrare un altro utente, oltretutto senza avere informazioni o conoscenze approfondite sulla sua persona), cedono tristemente a quel primordiale, irrinunciabile istinto connaturato alla natura umana, abbandonandosi inesorabilmente alla “caccia”. Perché la violenza è in noi e nemmeno la conoscenza talvolta riesce a fermarla. Così, anche tra persone considerate “di cultura”, il branco, forte della sua massa, esce allo scoperto.
Io non so nulla dell’autrice del post e mai, per nessuna ragione, mi permetterei di denigrarla. Ma qui, oltre all’educazione e al rispetto delle regole, credo, sopraggiunga un altro fattore: l’umanità. E questa nessun master, nessun concorso e nessuna cattedra può riconoscerla. Nemmeno, come nel nostro caso, se è in ambito umanistico. Sono pieno di difetti ma raramente inveisco contro qualcuno, nemmeno contro chi si comporta male in strada. Per il semplice fatto che spesso non ho elementi per farlo: non so se il guidatore sia alle prime armi, sia anziano e veda poco, stia correndo da qualcuno in ospedale, abbia parcheggiato male per disperazione o, semplicemente, sia un guidatore impeccabile trovatosi, per motivi a me sfuggenti, a distrarsi proprio nel momento in cui la sua esistenza si è trovata a incrociare la mia. Certamente esiste anche l’ipotesi di chi si trovi a errare deliberatamente. E nella rara eventualità in cui io abbia la fortuna di trovarmi dinanzi all’evidenza di un comportamento volutamente nefando allora intervengo. E questo, per l’appunto, è uno di quei rari momenti.
LA DENIGRAZIONE
Come nella realtà anche nei social il dileggio crea squadristi. La signora lancia la caccia al ladro definendomi “scimmione in perfetta regola”, quindi denigrandomi, e al tempo stesso lamentandosi perché lei in quanto “donna” non viene considerata come vorrebbe. Lo ripete anche nei commenti, poi nascosti, definendosi “donnetta”. E le viene subito in soccorso, sempre pubblicamente, un altro suo amico ricercatore sposando l’assurda (solo per il contesto in cui viene tirata in ballo) causa della discriminazione delle donne: “La cosa più deplorevole è che questo tipo di situazioni non vengono punite penalmente e si incoraggia una misoginia sommersa”.
Il signore in questione (del quale per arcani motivi il primo risultato che trovo è una sua esternazione pubblica su Facebook del 12 novembre 2015 dinanzi a una foto in bikini della fitness coach Monica Sancio: “Siempre espectacular, lozana y radiante belleza de Mónica”) non sa che dietro questo libro ci sono le mie agenti, donne, una direttrice, donna, una editor, donna, delle correttrici, donne, una responsabile stampa, donna (ed io sono grato a tutte perché senza il loro contributo questo libro non sarebbe mai esistito). Il libro, poi, nel caso non fosse evidente, è uscito da una casa editrice che naturalmente pubblica centinaia di libri splendidi scritti da donne (se fossi stato un rancoroso avrei aggiunto che anche il mio avvocato penalista è una donna).
A proposito di chi ha curato magnificamente questo libro, poi, la signora, non paga, asserisce, per poi pentirsi (ma il web è impietoso e tutto resta) che io abbia comprato la mia pubblicazione:
(“purtroppo presso un grande editore ..... pagato”),
non tenendo in considerazione che un editore della statura di Bompiani non farebbe mai una cosa del genere e dimostrando nuovamente un approccio che azzarderei a dire “infantile” se non avessi l’abitudine di tenere tese le briglie e che comunque in nulla si differisce da quello di chi, magari, non sa nulla di faccende dantesche ma è pronto a scagliarsi biecamente contro un nemico (da un migrante a un calciatore) pur di scaricare repressione, frustrazione e rancore.

La signora si fa forza dietro la sua piccola claque ma anche dietro il ruolo che riveste quando questo, credo io - ma forse pecco di utopismo -, dovrebbe essere usato per migliorare il mondo degli altri non per consolidare il proprio. Con quel post ho l’impressione che la signora non solo abbia sprecato una occasione, rendendosi uguale a tutti quelli che magari in passato più volte avrà criticato (leggendo post guerrafondai, discriminatori, razzisti e anche sessisti), ma abbia anche svelato un lato oscuro della sua forza.
“Scrivere un libro senza sapere nulla”, asserisce la signora quando però è lei stessa che in quel momento nulla sa del libro, dello sforzo che c’è dietro e di me. Ma nonostante ciò, lei, docente a contratto in una facoltà di giurisprudenza, ha deliberatamente espresso un giudizio pubblico contro uno sconosciuto negando qualunque principio accademico, logico, ponderato e adulto. Insomma di buon senso.
LO STATO DELLE COSE
So bene in che condizioni culturali viviamo, capisco quanta distanza esista ormai tra l’enorme sforzo di andare a fondo nelle proprie ricerche e la minuscola cerchia pronta a seguirle. Le persone come la signora del post, così come tutte quelle che appartengono al mondo accademico, non solo hanno tutta la mia solidarietà, sentimento che potrebbe involontariamente includere una certa commiserazione, ma anche tutta la mia stima per ciò che fanno (io stesso per il mio libro sono estremamente debitore nei confronti di molti accademici e per il solo fatto di essermi imbattuto durante la scrittura in un vecchio quaderno dantesco di Pio Rajna, benché non si sia rivelato utile per i miei fini, ho comunque citato la professoressa nei nomi finali in quanto curatrice del testo).
Peccato però che, alla fine, tutto questo sapere, ninfa vitale dell’accademismo (il quale, tra le altre cose, dovrebbe insegnare anche che in principio non sappiamo, che dobbiamo studiare per arrivare a una conclusione e che dobbiamo ponderare prima di emettere un giudizio) talvolta – e ci tengo a circoscrivere il contesto - si sbrodola in un istante mostrando la natura più profonda della propria essenza. Ciò che si è veramente: un individuo potenzialmente fautore di un’idea della violenza sociale quale fattore indispensabile per l’affermazione personale.
L’INTOCCABILITA’ DEGLI INTEGERRIMI
Quel “Danteide”, termine che naturalmente esiste indipendentemente dalla signora ma che lei sente suo solo perché da oltre un decennio rinnova l’omonimo dominio in concessione, è un piccolo indice di un certo atteggiamento che è tipicamente accademico e che spesso allontana la possibilità di una condivisione. Lei accusa me di averle rubato quel nome quando lei, reagendo a quel modo, non solo ha palesato il suo essersi voluta appropriare di un sapere, che è di tutti, ma lo ha ritenuto intoccabile, denunciando così tutta la miseria che avvolge - negli stereotipi e nella realtà - alcune figure che hanno usato l’accademismo come strumento di elevazione personale e dunque portatore di intoccabilità. Ora non dico che la signora sia così, non la conosco e non so come conduca la sua vita, voglio immaginarla come una persona piacevole, ma in questo piccolo caso, ha lasciato uscire uno spiffero di quella realtà. E questo piccolo alito che è arrivato causalmente a me è indice di un atteggiamento che, se non voglio azzardarmi a definire potenzialmente pericoloso, posso comunque reputare misero.
LA DIFFAMAZIONE
(SIA FATTA LA VOLONTÀ DELL’HASHTAG)
Nei primi giorni del mio percorso alla facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza di Roma mi sedetti puntuale tra i banchi dell’aula 1 per seguire con grande emozione la mia prima lezione universitaria di letteratura italiana. A metà dell’ora il professore non si era ancora presentato. Alla fine entrò in aula dopo quaranta minuti senza sentirsi minimamene in dovere di esternare una qualche giustificazione. Dopo cinque minuti si alzò uno studente per uscire. Il professore lo fulminò: “Dove crede di andare lei?”. Il ragazzo fece presente che aveva il treno da prendere. Ma il professore fu spietato e lo umiliò davanti a tutti. Quell’uomo era il vate degli accademici. Dagli studenti più navigati definito “Il barone”. Quel giorno rinunciai al privilegio di ascoltalo e scelsi un’altra cattedra. Perché la nostra cultura risiede anche nei nostri comportamenti.
Non siamo solo il titolo che ci siamo guadagnati. Siamo intanto persone. E il titolo anzi dovrebbe essere portatore, se non amplificatore, dei nostri valori, dovrebbe dunque essere un veicolo che ci permette di trasmetterli. Non vorrei ora tirare fuori la frase “Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla” (attribuita spesso al regista Carlo Mazzacurati, in realtà enunciata la prima volta nel 1894, all’interno del racconto “Beside the Bonnie Brier Bush”, dal reverendo scozzese John Wilson dietro lo pseudonimo di Ian McLaren), ma ritengo che forse sia la cosa più vicina al mio credo.
A parte quella, appena accennata, contro me non so quale battaglia stia combattendo la signora, quale sia la sua situazione personale, che tipo di sentimenti stiano attraversando la sua testa in questa fase della sua vita o magari se ha figli o parenti stretti che possano vedere associato al suo nome un epiteto sgradevole.
Epiteto che, nei miei confronti, ha utilizzato oltre a lei anche una sua amica di professione “postulatrice delle cause dei santi”, per la quale, così si legge nelle sue note, “proficue sono state le molte collaborazioni con le diocesi povere soprattutto africane e sud-americane”, così proficue da portarla nei commenti ad aggiungersi pubblicamente al branco per dire la sua sul fatto che
“lo scimmione ha fiuto”.
“Il Signore che compie meraviglie e intreccia le strade – scrive la postulatrice in un post - sia benedetto ora e sempre”. Se così è, qui, devo dire, il Creatore ha compiuto un piccolo capolavoro. La devota sponsorizzatrice di un orfanotrofio in Tanzania (2 dicembre 2016) che si aggrega al branco proprio con il peggiore degli insulti patiti nel resto del mondo dagli abitanti di stati come quello in cui lei stessa ha operato: scimmione (d’altro canto l’hashtag indicato dal post è proprio #scimmioni e l’obbedienza insita nella postulante non ha fatto altro che assecondarne la volontà).
Nelle religioni che si considerano di origine divina la rivelazione è il nome del processo secondo il quale Dio manifesterebbe la sua volontà agli uomini. Ora non so se questo intervento sia rientrato negli intenti divini ma, senza sottolineare le fin troppo evidenti contraddizioni tra le nudità e le vesti, incoerenze che rendono alla fine quegli abiti una maschera (immediato il rimando allo stereotipo, purtroppo reale, della “signora bene” che fa beneficenza per “i poveri del terzo mondo” ma poi umilia la propria colf che da quel mondo proviene, stereotipo che, almeno in questo caso, la devota Claudia Picazio ha dimostrato di impersonare perfettamente), rimango comunque ammirato nel vedere come i social, quando non vengono postate foto con labbra in fuori, riescano così limpidamente a rivelare chi siamo veramente. Benché (o forse in quanto) “rispettabili”, infatti, sappiamo dimostrare di essere anche oltraggiosi, villani e calunniosi al di sopra di qualunque forma di rispetto, di comprensione, di umanità. E anche di legge. Perché, faccio presente con molta serenità alle due signore - la “prof.” e la “post.” - disumanizzare una vittima, assimilandola a un animale, nel mio caso uno scimmione, integra la diffamazione (Cassazione penale n. 34145/2019).
HAPPY ENDING
Nel lontano 1982 anche a Enzo Bearzot, l’allenatore della nazionale italiana (sarà contento il signore che dice che scrivo solo di sport), una donna urlò “Scimmione” prima della partenza per i mondiali di Spagna (ecco perché l’epiteto mi suonava familiare). Dopo una prima reazione istintiva, il ct, che aveva studi classici alle spalle e, pur senza titoli, possedeva un approccio accademico, la prese da parte, argomentò le sue scelte e i due si riappacificarono. Lui tornò campione del mondo. Lei, che si chiamava Anna, lo invitò al suo matrimonio.
Vorrei congedarmi da questa piccola e misera faccenda dall’astiosa professoressa, dall’approssimativo bancario astrofilosofo, dalla pia denigratrice e da tutti i loro “compagni di branco” spegnendo questo falò delle vanità riprendendo il monito con cui Nicolò Bettoni, l’editore di Gaspare Gozzi, il primo danteidista (il cui dominio, avviso la signora, è libero in tutte le estensioni), chiudeva la sua premessa ne “La difesa di Dante”:
“Vivete felici!”.
Comments